Il tema della femminilità in Orazio
Rivista Letteraria - Anno XIV n. 3- 1992

di Pasquale Balestriere

  "Nos convivia, nos proelia virginum / sectis in iuvenes unguibus acrium / cantamus ..." (Carm.1,6, 17-19): Orazio dice di voler cantare i conviti e le battaglie delle fanciulle minacciose, anche con le unghie tagliate, contro i giovani.
  È, questa dichiarazione, un manifesto poetico e un programma di vita: e, in effetti, il motivo del convito e la figura della donna assumono grande rilievo nella tematica della poesia oraziana; in essa, del resto, sono ben vivi altri elementi, tutti perfettamente armonizzati nella visione della vita che lo scrittore mostra di avere.
  Il convito e la donna costituiscono per Orazio due momenti di vita importantissimi, perché spesso risolutori di stati d'animo angosciosi; e procedono di pari passo: vogliamo dire che, per il Venosino, salvo rarissime eccezioni, non esiste banchetto senza donne e viceversa; essi, insomma, rappresentano due elementi inscindibili di un'unica realtà e, se si vuole, di un'esigenza serenatrice.
Orazio, secondo il dettato epicureo, ritiene l'amore - quello vero, profondo, passionale - un sentimento che genera dolore; dunque è da evitare in quanto sconvolgerebbe un equilibrio interiore faticosamente realizzato.
  Pure viene spontanea la domanda: non è stata forse la morte prematura della "buona Cìnara", forse primo ma certamente unico, vero, amore di Orazio, a determinare in qualche modo la situazione interiore del poeta? Quella Cìnara, alla quale "breves / annos fata dederunt" (il fato assegnò breve vita) e che era "rapax" (avida) con gli altri ma disinteressata con lui? Quella Cìnara che lo ha amato quando, giovane, egli aveva "forte latus, nigros angusta fronte capillos" (un fisico robusto e neri capelli che gli ombreggiavano la fronte) (Ep.1,7,26) e che ripetutamente ricorda nei suoi scritti? (Carm.4,1,4;4,13,21-22; Ep.1,7,28;1,14,33). Non bisogna, crediamo, sottovalutare esperienze giovanili che nei processi educativi hanno notevole importanza: anch'esse determinano il carattere dell'uomo maturo.
  Come che sia, dopo quell'esperienza giovanile, Orazio comincia a vedere l'amore e la donna in modo diverso.
  Ma chi sono le compagne del poeta o almeno i personaggi femminili della sua poesia?
C'è Frine (Ep.14,15-16): "me libertina nec uno / contenta Phryne macerat" «mi consuma la libertina Frine, non contenta di uno solo» (a tal proposito si ricordi Catullo, 68, 134-135: "quae tamen etsi uno est contenta Catullo / rara verecundae furta feremus erae"); la passione per Frine divora Orazio al punto di non permettergli di scrivere versi. La libertina Mìrtale è "fretis acrior Hadriae" (Carm.1,33, 14) «più minacciosa dei flutti dell'Adriatico»; qualcuno traduce "acrior" con «più volubile»; la nostra interpretazione è però giustificata da Carm.1,6,17-18 ("virginum ... acrium"). Lidia poi (Carm.1,8,1; 1, 13,1;1,25,8;3,9), che non è libertina o meretrice come le precedenti (e, quindi, forse di più elevata condizione sociale), è descritta come amante insaziabile: difatti ha ridotto ad una larva d'uomo il giovane Sibari; ciò nonostante, Orazio si mostra sdegnato quando scopre il bel corpo della donna straziato, in schermaglie amorose, dal giovane Telefo, boriosamente irruente; ma Lidia comincia a dar segni di senescenza, non è più cercata dai giovani: rimarrà presto sola con la sua libidine insoddisfatta; del che il poeta si mostra contento in quanto certamente l'infedeltà della donna non lo ha reso felice; infine, però, egli è pronto a rinunciare, per lei, alla "flava Chloe". Cloe, appunto: ella "Inuleo ... similis ... quaerenti pavidam ... matrem" (1,23,1-3) «simile ad un cerbiatto che va alla ricerca della timida madre» è certamente un'acerba giovinetta "adrogans" «ritrosa» anche se "dulcis docta modos et citharae sciens" (Carm.2,9,10) «esperta in dolci melodie e capace di suonare la cetra». Orazio non ne fu eccessivamente innamorato, nonostante il "pro qua non metuam mori" dell'ode 3,9; è avvinto, invece, dalla statuaria bellezza di Glicera (Carm.1,19,5), più luminosa di un marmo pario; e dichiara "me lentus Glycerae torret amor meae" «mi brucia, lento, l'amore per la mia Glicera»; più che di amore, ci pare si tratti di ammirazione estetica - o forse estatica - di un tal esemplare di bellezza muliebre. Alla bellissima Glicera fa da contrappunto la vecchia e dissoluta Cori (Carm.3,15), moglie del "pauper" Ibico, la quale partecipa ai giochi delle "virgines" e tenta di confondersi con esse, nella speranza di accalappiare magari qualche sprovveduto amante.
  L'elenco, e quindi la descrizione dei tipi di donna che compaiono nella poesia oraziana, sarebbe lungo. Riteniamo, comunque, di aver presentato figure sufficientemente significative; pertanto citeremo solo "en passant" altri nomi: la spergiura Barine (Carm.2,8,2; l'infedele Pirra (Carm. 1, 5, 3); Tindaride "dalla dolce zampogna" (Carm.1,17,10); la "scortum " Lide (Carm. 2, 11, 21), che non vuole ascoltare i versi del poeta (3,11,7-8); la bionda Fillide, ultimo amore oraziano ("Meorum / finis amorum / non enim posthac alia calebo / femina ") (Carm.4,11,31-34); la crudele Lice, capricciosa con gli amanti, che il poeta deride, perché, ormai vecchia, vuol sembrar bella (3,10; 4,13); Foloe "aspera" e "fugax " - ritrosa - (Carm.1,33; 2,5; 3,15,7); Leuconoe, innamorata del poeta e timorosa del futuro (Carm.1,11); Asterie, moglie di Gige, fedele al marito ma forse attratta dal vicino Enipeo (Carm.3,7); Lalage (Carm.1,22,10 e 23) che parla e sorride dolcemente; la repellente strega Canidia (Ep.3,8;5,15 e 48;17,6; Sat.1,8,24 e 28;2,1, 48; 2,8,95); Inachia, altro violento amore di Orazio (Ep.11,6;12,5); Neera, dalla bella voce (Carm. 3,14,21; Ep.15,11), che il poeta vuole presente ad un banchetto.
   Altre figure femminili vivono nell'opera oraziana; non le citeremo e, a nostro parere, non sarà una grave omissione.
   Da quanto esposto emerge un quadro notevolmente variegato di caratteri femminili: libertine, donne infedeli e crudeli, fanciulle acerbe e scontrose, giovani innamorate e superstiziose, cantanti e citariste; da alcune di esse Orazio è attratto fisicamente, a volte in modo anche intenso; altre risvegliano in lui il gusto dell'esteta; per altre nutre sentimenti di tenerezza, magari un po' lasciva, rimpiangendo i suoi giovani anni; altre, ormai vecchie, per una sorta di ripicca, sono derise da lui, nel ricordo di passate gelosie.
   La donna, per Orazio, deve essere anzitutto buona amica, poi ottima conversatrice, dolce, disponibile tanto all'amplesso amoroso quanto alla buona tavola, graziosa quanto basta, giovane (ma neppure tanto); deve inoltre saper suonare e cantare ed essere libera da preoccupazioni che intristirebbero il poeta; il quale, a sua volta, odia i legami duraturi; la sua donna gli sarà compagna per un'ora, per un giorno, forse; da ciò si evince che non l'amore egli cerca, ma piuttosto la femminilità, intendendo con tale termine la somma delle qualità di una donna.
   La decadenza dei costumi romani dispiace ad Orazio che in essa vede, e non a torto, i segni premonitori del tramonto di Roma; gli eserciti dell'Urbe cominciano a cedere, perché i romani hanno dimenticato l'austerità dei padri; la lussuria impera; le donne apprendono le danze ioniche, ricche di movenze lascive ed allettatrici, e commettono adulteri in presenza di mariti condiscendenti (Carm.3, 6). Il poeta, nauseato, disprezza Clori, moglie disonesta, ma rispetta ed apprezza la fedeltà coniugale di Licinnia (pseudonimo per Terenzia, moglie di Mecenate); anche in Carm.3,24, 21 sgg. e in Ep.2,39 sgg., nonché altrove, loda l'onestà della donna; esorta Asterie a serbarsi fedele al marito Gige e a chiudersi in casa quando viene la notte.
  All'appressarsi dei quarant'anni Orazio non si sente più così propenso ad avventure galanti ed assume un'aria di uomo vissuto, ormai placato negli stimoli amorosi: è un atteggiamento paternalistico che non manca di far sorridere il lettore.
  Notevole è l'impegno del poeta nel cercare di eliminare alla radice stessa del sentimento, per così dire, amoroso (e non solo di quello) ogni traccia di asperità, di clamore e di isterismo; lo scrittore, in tal modo, conferisce ad esso la levigatezza necessaria perché il sentimento stesso risulti armonizzato e perfettamente integrato in quella temperie spirituale da cui poi deriva la personalissima "Weltanschauung" del Venosino. In lui, che, epicureisticamente, si sforza di dominare la potenza del sentimento (e spesso vi riesce), è sempre presente e viva la ricerca dell'armonia interiore che è il segno vero della classicità.

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