Il motivo simposiaco in Orazio
Rivista Letteraria - Anno XIV n. 3- 1992

di Pasquale Balestriere

  La poesia oraziana è densa di elementi satirici, parenetici, mitici, "erotici" (nell'accezione di cui sopra), lirici, gnomici. Nella gnome e nella parènesi è individuabile, più che altrove, la peculiarità del pensiero di Orazio: in esso affiorano, facilmente riconoscibili, tracce di filosofia stoica ed epicurea.
  Eppure il poeta sembra ridersi (Sat.1,3; 2,3) della dottrina stoica; non così in una satira divertente ma amara (2,7) nella quale il servo Davo, uomo non incolto relativamente alla sua condizione, furbescamente usando della libertà concessagli dai Saturnali, impartisce ad Orazio una severa lezione di filosofia stoica, facendolo montare su tutte le furie. È opportuno però precisare che il poeta non si ride dello stoicismo ma piuttosto delle conclusioni paradossali a cui giungono i seguaci di esso.
  Che Orazio al dettato della filosofia stoica preferisca quello epicureo è fuor di dubbio; ma neppure l'epicureismo egli assume integralmente a norma di vita, se manifesta profonda paura della "pallida mors" (Carm. 1, 4, 13 sgg.); e la rasserenante puntualizzazione di Epicuro sulla vanità del timore della morte, contenuta nella lettera a Menecèo e riportata da Lucrezio ("nil igitur mors est ad nos neque pertinet hilum" - 3,830), non giova a fargli vedere nella morte la liberatrice dai mali che ci tormentano.
   Nel pensiero oraziano, pertanto, confluiscono elementi della filosofia stoica, che si manifestano poeticamente soprattutto nelle odi civili, e norme della dottrina epicurea, riscontrabili nei componimenti che interessano la sfera privata dell'individuo; il tutto è armonizzato e contenuto da un bonario e sorridente scetticismo, derivante, forse, dal contrasto che le due tesi filosofiche generano in lui.
   È un tipo di filosofia, quella di Orazio, tutta particolare; e del resto egli confessa (Ep. 1,1, 13-19) che a nessuna scuola intende legarsi; diremo anzi che le dottrine filosofiche, opportunamente ritoccate e fuse in un sincretismo pratico tutto romano, sembrano divenire, tra le mani del Venosino, strumento e premessa per una condizione ideale di vita, sgombra da ansie, paure e dolori; e tale "modus vivendi ", tale armonia interiore il poeta non possiede, quasi per una sorta di dono divino, ma si sforza di attingere e conservare il più a lungo possibile; per questo sentenzia "Sperne voluptates: nocet empta dolore voluptas" «Fuggi i piaceri: fa male una soddisfazione procurata a prezzo di dolore» (Epl. 1,2, 55).
   Orazio, dunque, educato alla dura ma concreta scuola della vita, realisticamente coglie dalle varie scuole filosofiche gli elementi che a lui interessano, mantenendosi lontano da ogni paradosso e astrazione; soluzioni, queste, alle quali giungevano i vari sistemi filosofici attraverso processi speculativi rigorosamente logici.
   Questa digressione concernente la "filosofia" oraziana ha valore di premessa necessaria alla retta interpretazione del motivo simposiaco, caro al poeta almeno quanto quello erotico; si è già detto altrove come questi due temi siano intimamente legati tra loro.
   Alla base dei componimenti erotico-conviviali c'è il sentimento della fuga del tempo, e quindi della brevità della vita, nonché dell' "indomita mors "; il pensiero corre all'ode 2,14, bella e giustamente famosa, che scandisce, ci si perdoni l'oxymoron, una composta disperazione: e quel "labuntur" (v.2) vuole indicare lo scivolar via, quasi di soppiatto e come in fuga ("fugaces", v.1), della vita.
   A siffatta situazione il poeta reagisce con il "carpe diem" e il "vina liques": e così il convito, che deve garantirgli momenti di obliosa serenità, si trasforma in rito: in un'atmosfera raccolta (Orazio non ama la confusione nè la calca) si liberà agli dèi, dopo essersi coronati di mirto e di edera; compagna del poeta sarà Lidia, o forse Leuconoe, o magari Glicera; non mancherà la citarista, meglio se Tindaride; e neppure, a completare l'atmosfera quasi sacrificale, "tura " e "verbenae ".
   Il simposio che si fa rito, assumendo aspetti sacrificali ed una precisa liturgia, indurrebbe a pensare ad un Orazio legato fermamente alle divinità tradizionali: eppure, nonostante l'ode 1, 34, ci pare di poter ritenere che la sua fu piuttosto una religione naturale: "namque deos didici securum agere aevom / nec, siquid miri faciat natura, deos id / tristis ex alto caeli demittere tecto" «e infatti so bene che gli dèi vivono una loro vita tranquilla; e che, se la natura produce qualcosa di meraviglioso, non sono certamente gli dèi adirati a mandarcelo dall'eccelsa volta del cielo» (Sat. 1,5,101-103). Di conseguenza Giove, Mercurio, Venere, Apollo ecc. sono invocati dal poeta per quello che rappresentano: Giove vuol significare l'ordine dell'universo, la potenza, la regalità; Mercurio, la facondia, l'astuzia e l'inventiva; Venere, la bellezza, l'amore, la fertilità; Apollo, il sole vivificatore, la musica e la poesia; l'invocazione di queste divinità, inoltre, si giustifica in quanto in esse hanno creduto il padre del poeta e gli antenati che hanno dato a Roma grandezza e potenza; infine perché lo stesso Augusto, nel suo programma di restaurazione aveva previsto anche il ritorno alla religione tradizionale, nella speranza che rivivessero i costumi di un tempo e Roma potesse godere della tranquillità necessaria dopo tante vicende belliche spesso amare e luttuose.
   Ecco, Orazio crede nella potenza e nell'immortalità di Roma oltre che nel fascino e nell'immortalità della poesia (Carm. 3, 30): è questa la sua vera religione ed egli si sente "Musarum sacerdos ", sacerdote della poesia e del convito-rito sacrificale; sacerdotessa, preferibilmente di Venere, sarà la sua compagna e "strumenti" del sacrificio un agnello o un verro oppure un capretto o magari un vitello; mai, comunque, mancherà il vino. Cecubo, Massico, Caleno, gelosamente conservati e debitamente invecchiati, saranno tratti fuori "dalle cantine avite" e religiosamente centellinati. Così il vino, elemento principe del convito, potrà dare l'ebrietas, che, se da un lato rompe gli argini del "modus", dall'altro "spes iubet esse ratas ... / sollicitis animis onus eximit" «permette che si realizzino le speranze ... sgrava l'animo dalle preoccupazioni» (Epl. 1,5,17-18).
   Comunque i momenti di ebbrezza in Orazio sono assai rari; del resto, in Carm. 1, 18, 7 sgg., egli consiglia la moderazione nel bere: insomma si deve bere quel tanto necessario per addolcire gli affanni della vita. Pure, nei banchetti che festeggiano il ritorno di qualche amico (1, 36; 2, 7) il poeta abbandona il suo abituale senso della misura per darsi al vino e alle danze, invitando gli altri a fare altrettanto.
   Orazio non ama la folla e pertanto ai simposi troppo affollati preferisce conviti più intimi (Carm. 4, 11); e neppure lo attirano eccessivamente i pranzi raffinati: a lui bastano vivande semplici, possibilmente prodotte dal suo orto, e del "vile Sabinum".
   Il convito e l'amore, quindi, si collocano nell'esperienza lirica oraziana come momenti capaci di proiettare l'uomo in una dimensione semidivina, consentendogli di dimenticare, sia pure per breve tempo, la sua faticosa e dolorosa umanità.

SU